Ciao a tutti,
In questo numero di Decodifica vogliamo affrontare insieme un tema che tocca le nostre vite professionali e le nostre preoccupazioni quotidiane: l'impatto dell'intelligenza artificiale sul mondo del lavoro.
Viviamo in un'epoca di titoli allarmistici e previsioni apocalittiche. Ogni giorno leggiamo di milioni di posti di lavoro che scompariranno "domani" o di professioni che diventeranno obsolete "nel giro di pochi mesi". Ma è davvero così? La storia delle grandi trasformazioni tecnologiche ci racconta una storia diversa, più sfumata.
Abbiamo scelto questo argomento perché crediamo sia fondamentale trovare un equilibrio nella nostra visione: non sopravvalutare i cambiamenti immediati, ma nemmeno sottovalutare gli effetti profondi che vedremo dispiegarsi nei prossimi anni. Vogliamo aiutarvi a guardare oltre il rumore di fondo, oltre le semplificazioni, per costruire insieme una mappa realistica di ciò che ci aspetta.
La trasformazione che stiamo vivendo non è un meteorite che colpirà all'improvviso, ma piuttosto una marea che sale gradualmente, fino a quando, guardandoci indietro, ci renderemo conto di quanto il paesaggio sia cambiato. Dal 2025 al 2029, vedremo un'evoluzione che passerà dalla confusione iniziale a un'accelerazione sempre più evidente, fino a una possibile crisi occupazionale che richiederà risposte sociali innovative.
Quello che vogliamo offrirvi non sono facili rassicurazioni né inutili allarmismi, ma strumenti per comprendere e prepararvi. Perché la vera sfida non sarà tecnologica, ma umana: come reinventarci, come adattarci, come costruire sistemi che non lascino indietro nessuno.
Siamo tutti sulla stessa barca in questo oceano di cambiamento. E forse, guardando insieme all'orizzonte con occhi più consapevoli, potremo non solo sopravvivere alla tempesta, ma imparare a navigarla con maggiore sicurezza, trasformando l'incertezza in opportunità.
Buona lettura, La redazione di Decodifica
Le parole sono importanti: Disruption
Immagina una biblioteca tranquilla, dove vecchie abitudini si tramandano con pazienza: i libri si catalogano a mano, ogni scaffale segue ordini consolidati, i bibliotecari conoscono ogni aneddoto delle pareti. Poi suona l'allarme antincendio: non c'è fuoco, ma nel giro di pochi giorni arriva una nuova direttiva—tutti i cataloghi sono digitali, i robot sistemano i volumi, e gli utenti consultano l'archivio da casa. Confusione, sgomento, domande che frullano sull'utilità del mestiere di ieri.
Questa è la disruption: quando un cambiamento, spesso guidato da una tecnologia dirompente come l'intelligenza artificiale, entra in scena senza bussare. Non si tratta solo di modernizzare una mansione; è come se il tavolo su cui giochi da una vita venisse ribaltato da un momento all'altro. Tutto va ripensato: le regole, i ruoli, perfino il senso stesso del gioco.
Pensiamo all'avvento degli smartphone: un oggetto portatile ha reso obsolete le vecchie fotocamere, i navigatori satellitari, persino il biglietto del treno. O ai servizi di streaming che in pochi anni hanno trasformato il nostro modo di guardare film e ascoltare musica, lasciando vuote le vecchie videoteche. Oggi, la disruption veste i panni dell'IA: algoritmi che riscrivono report, automatizzano compiti amministrativi, persino prendono decisioni su assunzioni e prestiti.
Disruption, in fondo, è l'arte di mettersi in discussione. È la pioggia che scuote l'albero, facendo cadere i frutti più maturi ma costringendo anche a piantare semi nuovi. Sul lavoro e nella società ci spinge a imparare, adattarci, persino cambiare prospettiva. Spaventa, ma è anche possibilità: quella di ripensare il futuro, invece di subirlo passivamente.
La differenza la fa chi sa vedere, nella tempesta della disruption, non solo la fine di qualcosa, ma l'inizio di un modo nuovo di costruire valore. Perché, nel mondo che cambia, resistere è inutile: meglio imparare a navigarlo, insieme.
La vera sfida non è l'IA, ma la nostra capacità di reinventare il contratto sociale
Quando parliamo di intelligenza artificiale, tendiamo a concentrarci sulle macchine e su cosa possono fare. Ma forse stiamo guardando nella direzione sbagliata. La vera questione non è quanto velocemente l'IA sostituirà i lavori, ma quanto lentamente noi, come società, ci stiamo preparando alla transizione.
Come osserva Kate Crawford in "Atlante dell'IA", queste tecnologie non esistono in un vuoto tecnico, ma in ecosistemi sociali complessi dove il potere è distribuito in modo diseguale. La trasformazione non è solo tecnologica, ma profondamente politica.
Il paradosso della transizione
Le rivoluzioni tecnologiche seguono un modello ricorrente: inizialmente sottovalutiamo i cambiamenti strutturali, poi ci troviamo impreparati quando diventano improvvisamente evidenti. È accaduto con la rivoluzione industriale, con l'automazione delle fabbriche, con internet.
Prendiamo l'esempio della digitalizzazione del settore musicale: ci sono voluti anni prima che l'impatto diventasse evidente, ma quando è avvenuto, l'intero modello di business è collassato in pochi mesi. Chi aveva anticipato la transizione è sopravvissuto, chi l'ha negata è scomparso.
Con l'IA stiamo assistendo a qualcosa di simile, ma su scala molto più ampia e con implicazioni sociali ben più profonde.
La questione non è "se", ma "come"
Il dibattito pubblico spesso si polarizza tra tecnottimisti ("l'IA creerà più lavori di quanti ne distruggerà") e tecnocatastrofisti ("l'IA ci renderà tutti disoccupati"). Entrambe le posizioni mancano il punto essenziale: non è la tecnologia in sé a determinare gli esiti sociali, ma le scelte collettive che facciamo attorno ad essa.
Come scrive Daron Acemoglu in "Power and Progress", la direzione che prenderà l'automazione dipende da chi detiene il potere di indirizzarla. Finora, l'IA è stata principalmente orientata alla sostituzione del lavoro piuttosto che al suo potenziamento - una scelta economica e politica, non un destino tecnologico inevitabile.
Le domande che non stiamo facendo
Mentre ci chiediamo se ChatGPT scriverà meglio di un copywriter, stiamo evitando le domande veramente difficili:
Come ripensiamo i sistemi educativi quando le competenze hanno una data di scadenza sempre più breve?
Come garantiamo protezione sociale quando il lavoro diventa più precario e intermittente?
Come redistribuiamo i benefici dell'automazione quando i guadagni di produttività si concentrano in poche mani?
Chi decide quali capacità umane meritano di essere preservate anche quando non sono economicamente "efficienti"?
Queste non sono domande tecniche, ma profondamente etiche e politiche.
Un nuovo contratto sociale
La storia ci insegna che le grandi transizioni tecnologiche richiedono nuovi patti sociali. La rivoluzione industriale ha portato, non senza conflitti, all'emergere di diritti dei lavoratori, sistemi pensionistici, istruzione pubblica universale.
Oggi abbiamo bisogno di un ripensamento altrettanto radicale. Potrebbero essere necessari nuovi diritti: il diritto alla formazione continua, forme di reddito universale, una ridistribuzione del tempo libero, nuove forme di proprietà collettiva dei dati che alimentano l'IA.
Ma questi cambiamenti non avvengono spontaneamente. Come ha scritto recentemente Shoshana Zuboff: "Non è la tecnologia che determina la società, ma la società che determina cosa diventa la tecnologia".
La vera sfida dell'IA non è quindi tecnologica, ma sociale e politica: riusciremo a costruire istituzioni e norme che indirizzino questa potente tecnologia verso il bene comune, o lasceremo che accentui le disuguaglianze esistenti?
La risposta non è scritta nel codice degli algoritmi, ma nelle scelte collettive che faremo nei prossimi anni.
"L'intelligenza artificiale è un po' come quel collega nuovo che entra in ufficio con le sue abitudini, all'inizio sembra non capire niente delle nostre dinamiche. Poi però, pezzo dopo pezzo, ci accorgiamo che siamo noi a cambiare orari, strumenti, persino il modo di ragionare, per semplificargli la vita. Ecco, il vero rischio non è che l'IA ci imiti o ci rimpiazzi di colpo, ma che senza accorgercene siamo noi ad adattarci a lei, cedendo pezzi di controllo. A me è successo: un giorno mi sono reso conto che la mia giornata lavorativa la decideva un algoritmo di ottimizzazione—e io ci stavo dentro, ci giravo attorno, giusto per non farmi tagliare fuori. Consiglio? Non lasciate che succeda in automatico. Ogni tanto, fermatevi e chiedetevi: sto ancora scegliendo io, o sto solo seguendo la direzione più facile che mi indica la macchina?"
Ecco il punto: il cambiamento con l'IA non lo senti subito, ma quando te ne accorgi forse sei già in movimento. Conviene restare "insonni" — come suggerisce Floridi — perché addormentarsi sulle abitudini oggi può portare a svegliarsi un giorno in un paesaggio che non si riconosce più.
Grazie per essere arrivat[ai] alla fine! Alla prossima
Il team di Febus
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